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7 𝘽𝙡𝙤𝙜 𝙥𝙚𝙧 1 𝙖𝙪𝙩𝙤𝙧𝙚: 𝙎𝙪𝙨𝙖𝙣𝙣𝙖 𝙏𝙧𝙞𝙥𝙥𝙖

Amici delle Gatte per la rubrica "7 Blog per 1 autore", oggi vi presentiamo i personaggi del libro "Come cambio lo sguardo" di Susanna Trippa, pubblicato da Arnaldo Curcio editore.

TERZA TAPPA: CASTDREAM


Raccontaci qualcosa sui protagonisti del romanzo con descrizioni a livello fisico e caratteriale.


Susanna, la protagonista.


Chi era poi?

Infanzia - Io, piccolissima e trasognata in una posa un po’ sghimbescia, distribuisco cibo ai piccioni in piazza Maggiore. Permalosa e ipersensibile… ero una bambina mica tanto semplice a pensarci adesso.


Giovinezza - Un pomeriggio d’autunno: fa freddo e cammino lungo il portico di via San Felice. Ho i capelli tirati su, sotto il cappotto ho un abitino che mi piace, mi sento carina… in pace con me stessa e col mondo.


Sto andando a una festa, a casa di una mia compagna di classe. Nel salotto di casa sua ascolto per la prima volta Via del campo di De André. Sento, in modo confuso e per nulla analizzato al momento, che la mia emozionalità va verso tutto quello che sa di tragico, di romantico. «Occhi color di foglia… dal letame nascono i fior».


Tutto questo era così… così… Allora non cercavo di descriverlo o definirlo, ma sentivo che l’emozione era forte.


Rimasi così… annichilita, annientata dal suo troncare improvviso.


E infine meravigliata che i versi già tanto amati «I nostri cuori rispondono a stelle che non sanno che farsene di noi» fossero ancora così attuali. Era il mio karma di quegli anni: rincorrevo stelle che fuggivano… per fuggire a mia volta da altre. Intanto andavo ancora alle manifestazioni e ascoltavo canti di lotta, ma spesso, come già tante altre volte, mi sentivo estranea. In me si faceva strada l’intuizione che il percorso personale di ognuno di noi fosse la vera rivoluzione. «Il personale è politico».


Mi sentivo nel solco di una liberazione personale e storica. Dopo sarebbero ritornati i demoni, ma per il momento se ne stavano lontani.


Mia nonna: La nonna era una donna d’altri tempi, di quelle che avevano passato due guerre mondiali e tante notti negli ospedali d’allora, accanto al letto di questo o quel parente con il colera o la spagnola. Non capivo quando, da bambina, m’insegnavano a pelare le patate e lei indicava alla mamma che toglievo troppa polpa farinosa sotto la buccia. Veniva da una vita ben diversa da quella che avevo io! Però, in quei momenti, le faceva poco caso anche la mamma, che non aveva mai voluto parlare in dialetto e rifiutava ogni segno di ristrettezza. Dicono che ognuno di noi sia anche il nome che gli hanno dato quand’è nato; che questo nome fa proprio parte della nostra personalità, se poi l’abbiamo accettato. Allora credo che quel nome della nonna – Pasqua… Pasquina – abbia contribuito a fare di lei quello che era. «Contento come una Pasqua!», si dice. Così era per la nonna.


Mia madre: Andavamo dagli Orsini certe domeniche e io me ne stavo sul bordo dell’erba, proprio come mio padre ch’era cittadino fino al midollo, mentre la mamma respirava forte e poi esclamava: «Che buon odore di campagna!».


Estasiata, rievocava le estati di quand’era ragazzina e andava là in villeggiatura.


Per prima cosa buttava via le scarpe a sentir l’erba sotto i piedi, mentre gli altri le dicevano: «Fedora, canta!». E lei non si faceva pregare, si metteva a cantare di tutto – come l’avrei poi sentita tante volte in casa all’improvviso – tutto quello che nell’inverno cittadino aveva ascoltato «alla rivista», o anche solo per strada, dai garzoni che, a piedi, in bicicletta o con quei tricicli di allora, portavano il pane, e intanto cantavano a squarciagola.


Mia mamma era nata nel 1915 e penso che allora non avessero ancora la radio in casa; le canzonette le imparava così. E poi c’erano i suoi racconti di quand’erano sfollati, sempre dagli Orsini, che pareva fosse stata un’avventura romantica nella natura, più che una guerra davvero.


Quand’ero così piccola, lei era davvero la mia salvatrice; solo con lei mi sentivo sicura e a mio agio.


Mio padre: Un pomeriggio di quelli andai con mio padre al luna park, che allora era alla Montagnola, una specie di Pincio bolognese.


Ricordo noi due sull’autoscontro, e poi sull’aeroplanino che si alzava; il brivido di scendere all’improvviso, se colpiti, e di sparare poi su quello davanti, inquadrando attraverso il mirino.


Un raro momento di noi due insieme e da soli… Il babbo si gustava ogni momento di spiaggia e di sole, anche se erano pochi per lui in quegli anni perché lavorava tanto.


Ricordo che a tavola, in pensione, toglieva l’orologio e poi guardava sorridendo quel biancore che spiccava sul braccio abbronzato. Riccione era il mio Paese dei balocchi… le aspettative per la serata erano palpabili durante tutta la giornata in spiaggia.


Alla quattordicenne ch’ero allora sarebbe bastato poco, ma poi arrivava la fatidica domanda di mio padre: ci sono ragazzi? Era come un teorema matematico: se la mia risposta era affermativa, la sua era sempre no. Semplice da imparare.


Mio fratello: Avrò avuto un anno e mio fratello nove; bello e sorridente, mi tiene in bilico su una spalla; io ho la vestina corta e una testolina incorniciata da pochi riccioletti neri, lui ha una perfetta scriminatura laterale che dà il via a un ciuffo malandrino.


Cosa c’è ancora nel cassettino dei primissimi ricordi?


Un cartoncino di un azzurro sbiadito, e incollati su quello i provini scattati nello studio fotografico Villani. Io a tre anni, ancora paffuta e sorridente, poso da sola; e poi con mio fratello di undici, in un duetto che era la nostra realtà di allora: lui affettuoso e protettivo, io adorante e civetta.


Sì, anche civetta, perché ero innamorata di quel mio fratellone che chiamavo Dado. In quegli anni, se pensavo al futuro, immaginavo che io e lui saremmo vissuti insieme nella casetta dei sette nani. Da vera fidanzata in erba, cercavo di mostrare qualche punta di potere anch’io e facevo ridere i miei quando lo minacciavo esclamando: «Se fai lo sciocco, quando sei grande non ti sposo più!».


L’amica del cuore: La prima volta che la vidi è conservata nella mia memoria in una breve serie di fotogrammi. Lei, che non ha ancora quattro anni, è in braccio alla sua mamma nel riquadro della porta d’entrata, e sta piagnucolando. La sua mamma, che per tanti anni avrei poi chiamato zia Titina, chiede alla mia se può lasciarla un momento da noi per scendere a prendere il pane.


Scambio di saluti e il battente si richiude alle spalle di questo scricciolo di bambina, finalmente più piccola di me, che io, imitando la sbruffoneria di mio fratello adolescente, tratto sul primo momento con una certa condiscendenza. Ma dalle lacrime a qualche sorriso incerto Valentina fa presto a passare e io, abbandonato il mio atteggiamento da quattro soldi, dimentico in fretta che sono più grande di lei. Da quel giorno fummo inseparabili.


Giocavamo per interi pomeriggi, dispiaciute di lasciarci quando le nostre mamme c’interrompevano per la cena; negli occhi, salda come la roccia, la promessa di ritrovarci il giorno dopo, appena le mamme avrebbero potuto accompagnarci però, per quella rampa di scale, ché fortunatamente ci divideva solo un piano del palazzo. Nell’attesa, ci guardavamo da un balcone all’altro, sedute sugli sgabelletti con la bambola in braccio, e nell’aria andavano le nostre parole.


Il ricordo principe della mia infanzia: È un mattino di prima estate. La mamma mi ha lasciato scendere in cortile; lei stessa mi ha accompagnato lungo le scale, aprendomi la porticina con i riquadri di vetro colorato e lo stucco che si stacca un poco ai bordi.


Scendo un altro gradino e sono arrivata; a lato della porta c’è quel ferretto che serviva per pulire la suola delle scarpe. Adesso sono sola nel cortile, che mi sembra così grande e vuoto, perché è mattina e tutti gli altri sono a scuola. Solo nel pomeriggio si riempirà, e io sarò la più piccola; finché non è arrivata Valentina nella mia vita, mi è sempre parso di essere la più piccola.


Guardo in alto: il Sole che arriva a est dalla parte della via Emilia sta salendo, ma non fa ancora troppo caldo. L’aria è fresca e profumata, e bellissima. Ho una vestina di cotone e le scarpette di tela blu, non sento né troppo caldo né troppo freddo. Sto semplicemente là in quel mattino d’inizio estate; poi mi avvicino alla rete che divide il cortile dall’orto. Sulle maglie della rete si avvolgono i sottili gambi verde pisello delle campanule e loro, tantissime, screziate di rosa, anche loro se ne stanno là tranquille, mentre i raggi del sole arrivano a scaldarle e le farfalle volano vicine.


Al di là della rete, l’orto è in penombra. Guardo verso le rose della nonna Elisa. Una campanula, che ho staccato dal suo gambo, si è subito stropicciata e afflosciata; la guardo, ma non voglio prenderne altre; sono più belle così avvoltolate sulla rete. Il ricordo di quel mattino è come se fosse stato il primo del mondo, l’inizio. Tutto era perfetto. Forse era così il Paradiso terrestre: di là c’era l’orto in penombra, chiuso dal cancellino, e Adamo ed Eva non avrebbero dovuto andarvi senza permesso. Perché anche nel nostro orto, chissà… magari non c’erano solo le rose della nonna che si potevano rovinare. Forse c’era qualcos’altro di prezioso. Il mio stupore di fronte alla meraviglia della vita, in quel mattino nel cortile di via Gorizia, è il ricordo più bello della mia primissima infanzia. Contemplavo per la prima volta il mondo nella sua essenza di meraviglia, e la cosa mi lasciava senza fiato.


Il primo amore: A un tratto – e ho il ricordo nettissimo dentro di me – mi guardai attorno e la mia attenzione fu catturata. Proprio di fronte a me, sull’altro lato della sala, affondato in una poltrona seria seria di cuoio marrone, stava un mio compagno di classe: nell’aria andava And I love her dei Beatles, che sempre associo a quel momento. Fu davvero come se mi avessero fatto bere alla fonte magica. E come se lo vedessi per la prima volta. Rimasi senza fiato e senza parole. Annichilita, ma anche al settimo cielo per quanto stavo provando. Miracolosamente, dopo qualche minuto m’invitò a ballare, ma dopo pochissimo venne a prendermi il babbo. A ripensarci adesso, era significativo che un qualcosa sul nascere, anche se solo mio, fosse interrotto da mio padre. La mia adolescenza era costellata da eventi del genere

 

IL LIBRO:


«Il corpo principale del libro "Come cambia lo sguardo" è la narrazione dei miei primi trent'anni di vita. E io chi sono? Una persona già nota al pubblico? Con una certa visibilità? No.


Sono una persona qualsiasi, una donna in questo caso, che si è trovata a rievocare, con spontaneità e gioia della memoria, momenti della propria vita e intanto, nello scrivere, si accorgeva che questi coincidevano con passaggi epocali soggetti a forti cambiamenti di sguardo.


Dai primi anni Cinquanta - quasi un dopoguerra - quand'ancora a Bologna, negli inverni freddi, sentivo odore di frittelle impastate con farina di castagne e cotte per strada, le "mistocchine", fino ad arrivare al marzo del '77 ― Radio Alice e gli Anni di piombo come una nube scura... infine l'approdo a Bergamo e all'età adulta.


In mezzo, riaprendo i cassettini della memoria, stanno l'ubriacatura del miracolo economico, il Sessantotto e quanto poi ne derivò. Un percorso di vita in quegli anni, da bambina a donna, in cui cambia lo sguardo».

Le Gatte ringraziano Susanna Trippa per il materiale del libro ricevuto in omaggio e vi invitano a seguire tutte le tappe per conoscerlo meglio....


LUNEDÌ - Tutto sul romanzo - IO AMO I LIBRI E LE SERIE TV

MARTEDÌ - Ambientazione - IN COMPAGNIA DI UNA PENNA

MERCOLEDÌ - Cast Dream - TRE GATTE TRA I LIBRI

GIOVEDÌ - Un messaggio da scoprire - ANIMA DI CARTA

VENERDÌ - Un'immagine che racconta - LIBERA_MENTE

SABATO - Intervista all'autore - READING IN TRUE LOVE

DOMENICA - Intervista al personaggio - GLI OCCHI DEL LUPI

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